De Bello Gallico

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DE BELLO GALLICO

La serie di spedizioni compiute da Giulio Cesare in Gallia dalla primavera del 58 a.C. al 50 a.C. hanno preso il nome di Guerra Gallica dal libro che lo stesso Cesare ha dedicato ad esse: i Commentari de Bello Gallico, che ha un posto nella nostra memoria come uno dei testi dove, come ricordano bene chi abbia frequentato il Liceo Classico, abbiamo imparato il latino nei lontani anni del ginnasio. In realtà si trattò di una dei fatti capitali della storia repubblicana romana, in grado di cambiare definitivamente le sorti della Città Eterna e del mondo.

La Gallia, i cui confini geografici corrispondevano grosso modo a quelli della Francia odierna, divenne all’epoca il campo di battaglia tra l’evoluta civiltà romana, che procedeva verso ulteriori raffinamenti delle forme istituzionali e politiche, e la fresca barbarie dei Germani, ancora avviluppata in forme di vita primitive, tribali e guerriere. In realtà, in Gallia si era infiltrato il costume romano per mezzo degli innumerevoli mercanti italici che pullulavano nelle contrade celtiche, ma essa restava fieramente abbarbicata alle proprie origini etniche. Tale territorio fu il pomo della discordia tra Romani e Germani e, una volta accettata l’alleanza dei Romani per scacciare dal proprio territorio le tribù del re svevo Ariovisto, esso si trovò alla mercè delle truppe di Cesare e, nonostante alcuni generosi soprassalti del suo orgoglio nazionale, dovette alla fine assoggettarsi al dominio romano.

IL PENSIERO DI GIULIO CESARE

Su un punto gli storici sono pressochè unanimemente concordi: a Cesare ed alla conseguente romanizzazione delle Gallie si deve il ritardo delle grandi invasioni barbariche per almeno tre secoli.

La campagna durò quasi nove anni e mirò alla conquista ed alla sottomissione di popoli in qualche caso persino ignori ai Romani, come per il territorio della Britannia. Un ruolo primario nel concepire ed effettuare un’impresa di tali proporzioni lo ebbe certamente l’ambizione di Cesare, desideroso di ricavare dall’impresa gallica gloria, prestigio e danaro.

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Ci fu però anche qualcosa d’altro. La stessa concezione della politica che Cesare aveva elaborato nel corso dei suoi primi quaranta anni di vita lo spingeva verso una simile impresa. Egli non credeva più alla vecchia repubblica, non credeva che una città come Roma, che aveva esteso enormemente il proprio dominio dalla Spagna fino all’Africa settentrionale e all’Oriente, potesse seguitare a essere governata da un ceto di burocrati faziosi o di aristocratici delusi, che traevano il proprio alimento morale solo da un’astratta visione delle leggendarie virtù italiche dei Patres.

Il disegno di Cesare si intravede perfettamente già esaminando l’orazione funebre che egli pronunciò in memoria della zia paterna: “La stirpe materna di mia zia Giulia discende dai re; quella di mio padre si collega con gli dèi immortali. Infatti mia madre trasse origine dai Marcii che discendono da Anco Marzio; la gente Giulia discende da Venere, e la mia famiglia è un ramo di tale albero. Confluiscono dunque nella nostra stirpe la sacralità dei re, che tanto possono tra gli uomini, e la santità degli dèi che hanno potere sugli stessi re”. Con queste parole superbe, Cesare forniva un supporto ideologico alla sua azione politica.

Strettamente legato al partito democratico, di cui nell’anno del suo consolato (59 a.C.) era diventato il massimo esponente, egli forzò la mano al Senato, dominato dai conservatori, facendo approvare con un plebiscito popolare la legge sulle province consolari presentata dal tribuno della plebe Vatinio (da cui il nome Lex Vatinia). Il Senato, contrario in maggioranza ai desideri di Cesare, dovette capitolare davanti al volere del popolo e ratificò la legge, che assegnava al futuro dominatore di Roma il comando militare per cinque anni (imperium) sulla Gallia Cisalpina e l’illirico, ossia l’Italia del Nord e la Dalmazia. Addirittura vi aggiunse anche la Gallia Transalpina, e successivamente rinnovò questo comando per altri cinque anni.

Psicologicamente, l’Imperator aspettava quel momento: Cesare infatti, vantandosi di appartenere a una stirpe divina e regale, cercava nel consenso popolare l’avallo ed il suggello delle proprie aspirazioni. Egli disprezzava il Senato, flaccido e corrotto: le vecchie istituzioni repubblicane, coi loro moralismi stantii e la loro corruzione, erano diventate impari al compito di formare governi efficienti.

A ciò si deve aggiungere l’alacrità dell’ingegno di Cesare e la sua insaziabile curiosità di esplorare in Gallia un mondo interamente nuovo di cui, proprio nel De Bello Gallico, ci ha lasciato un referto quasi da antropologo.

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LA GUERRA GALLICA: GLI ELVEZI

Nel 58 a.C. gli Elvezi, che occupavano una parte della Svizzera odierna, decisero di sottrarsi definitivamente alla minaccia di un’invasione da parte dei Germani guidati dal re Ariovisto, emigrando in massa: oggi gli storici calcolano in oltre trecentomila il numero di uomini, donne e bambini che, dopo aver bruciato i loro villaggi per sottrarsi a ogni tentazione di tornare indietro, presero la strada dell’Ovest.

Cesare afferrò a volo l’occasione involontariamente offertagli da quel popolo infelice e minacciato da nemici crudeli. Infatti, per addentrarsi nella porzione della Gallia che non era ancora sotto il dominio romano, essi dovevano attraversare il Rodano e percorrere una zona della cosiddetta “Gallia togata”, ossia quella Provincia Narbonense che i Romani avevano sottomesso da tempo. Cesare vietò loro il passaggio, facendo costruire in fretta fortificazioni lungo il Rodano; quindi, con la celerità che gli era consueta, corse ad Aquileia e condusse con sé altre tre legioni, che aggiunte alla legione di stanza presso il Rodano formarono il nucleo robusto ed efficiente di un piccolo esercito di circa 50.000 uomini.

Gli Elvezi decisero allora di seguire un’altra strada che, passando attraverso la catena del Giura, attraversava i territori abitati dai Sequani e dagli Edui. Per garantirsi un ulteriore vantaggio tattico, Cesare giocò d’astuzia: rispolverando per l’occasione l’alleanza che legava gli Edui al popolo romano, fece in modo che costoro gli chiedessero aiuto a causa delle razzie degli Elvezi, per poi varcare in fretta e furia il confine tra la Provincia romana ed il loro territorio per attaccare gli Elvezi, devastandoli.

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LA GUERRA GALLICA: I GERMANI

Il vero obiettivo di Cesare non erano però i poveri Elvezi, che gli avevano offerto semplicemente il pretesto per entrare nel paese celtico: egli mirava ai Germani di Ariovisto. Anche in questo caso, però, Cesare aveva bisogno che la richiesta di aiuto provenisse dalle popolazioni direttamente minacciate: per questo motivo, egli scelse di approfittare della Dieta Generale delle Gallie, convocata a Bibracte e da lui largamente influenzata.

Vale la pena di riferire ciò che avvenne in quella Dieta o, più esattamente, ciò che avvenne quando l’adunanza fu sciolta e i capi che vi avevano partecipato chiesero licenza al generale romano di conferire in segreto. Basta in tal senso leggere il resoconto redatto dallo stesso Cesare, che parla di sé in terza persona: “Avuto il suo assenso, tutti gli si gettarono piangendo ai piedi. Essi insistevano sì per ottenere ciò che avrebbero chiesto, ma domandavano che non venissero divulgate le loro parole, giacché se si fossero risapute, sapevano di andare incontro a un orrendo castigo. Infine, a nome di tutti, prese la parola l‘eduo Diviziaco”.

Diviziaco era un vecchio alleato dei Romani. Uomo astuto e discreto politico, avvezzo a trattare con amici e avversari, espose in breve la richiesta dei Galli, ossia che Cesare li difendesse con la forza delle armi dall’imminente pericolo che incombeva su di loro.

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I Germani passavano in forze il Reno e Ariovisto mirava ad assoggettare la Gallia. Cesare sapeva benissimo che Ariovisto non si sarebbe lasciato convincere da nessuno a desistere da una conquista lungamente meditata e desiderata, ed al contempo era ben conscio che fargli la guerra non sarebbe stato facile, poiché il re germano era, allo stesso titolo degli Edui, amico e alleato del popolo romano. Cesare sapeva però anche un altro dettaglio, ricevuto dai suoi informatori: i suoi nemici del partito conservatore si aggiravano nel campo di Ariovisto nell’intento di adoperare lo svevo per toglierlo di mezzo con la forza.

A quel punto, Cesare cominciò prudentemente a negoziare, ma come previsto Ariovisto rifiutò di trattare, affermando che il suo diritto di condottiero di un popolo sovrano, e per di più alleato di Roma, doveva essere rispettato. Cesare ne approfittò per rimproverare aspramente Ariovisto di aver dimenticato i benefici ricevuti da Roma e ingiungergli di non portare altri Germani in Gallia, di restituire gli ostaggi Edui e Sequani e di non fare la guerra a queste popolazioni e ai loro alleati.

All’ennesimo rifiuto, Cesare scelse di marciare contro di lui, ma qui avvenne il primo imprevisto: alcuni dei soldati romani fecero scaturire una vera e propria rivolta interna, terrorizzati alla notizia di una battaglia coi Germani, che godevano della (giusta) fama di essere guerrieri tremendi e sanguinari. Cesare si presentò a quel punto dinanzi ai suoi soldati, dicendo che se erano tanto vili da non saper affrontare un nemico che conoscevano solo per fama, sarebbe andato a battersi coi Germani soltanto con gli eroici veterani della Decima Legione.

In tal modo, Cesare ricondusse la disciplina tra le truppe e affrontò Ariovisto in campo aperto. I Germani accettarono la battaglia e “affinchè nessuna speranza rimanesse nella fuga, cinsero tutto lo schieramento con le vetture e i carri, sui quali posero le donne e i fanciulli”.

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La fredda strategia di Cesare si fondava sull’abile impiego di una truppa tenuta di riserva e pronta a gettarsi nella mischia non appena il nemico, presumendo di essere vicino alla vittoria, avesse ridotto le proprie precauzioni. La terza schiera dei legionari fu fatta avanzare dal comandante della cavalleria Publio Crasso, figlio di quel Crasso che aveva condiviso con Cesare e Pompeo le glorie del triumvirato: i Germani, erroneamente convinti di avere ormai in pugno le sorti del combattimento, furono sbaragliati. Alcuni di loro, però, fra cui lo stesso Ariovisto, riuscirono a fuggire e varcare il Reno: Cesare inseguì con la cavalleria il nemico sconfitto fino al grande fiume, che da quel momento sarebbe diventato la frontiera tra il mondo germanico e il mondo latino.

LA CONQUISTA DELLA GALLIA

La rotta sveva poteva segnare anche la fine della guerra in Gallia, se Cesare l’avesse intrapresa con l’unico scopo di estendere Il protettorato di Roma oltre i confini della Narbonense e di scacciare Germani dalla Gallia. In realtà, però, Cesare mirava ad impadronirsi di tutta la Gallia, ricca di materia prime, e scelse perciò di dedicare gli anni dal 57 al 50 a.C. al tentativo di assoggettarla.

Fu un’impresa decisamente difficile, poiché Cesare dovette fronteggiare popoli orgogliosi fieri delle loro libertà. Due episodi della prima parte di questa Campagna, che arrivò fino al 54 a.C., si rivelarono particolarmente importanti: la rivolta dei Belgi, domata nel 57 a.C. con la battaglia della Sambra, dove l’esercito romano corse un pericolo gravissimo e Cesare stesso prestò il fianco a critiche per le disposizioni date alle sue truppe (Napoleone stesso rimproverò a Cesare, in un suo trattato, una certa mancanza di accortezza per essersi fatto sorprendere dal nemico) e la sollevazione dei Veneti.

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Quest’ultima venne risolta da una battaglia navale, che i Romani riuscirono a vincere in virtù dello straordinario spirito di adattamento e della sagacia delle loro truppe. I Veneti infatti (da non confondere con l’attuale popolazione italiana) occupavano all’epoca l’attuale zona della Bassa Bretagna ed erano espertissimi nella navigazione d’alto mare, tanto che i loro galeoni erano probabilmente in grado di solcare l’Atlantico. Essi, inoltre, abitavano villaggi posti su promontori collegati alla terraferma da lingue di sabbia che venivano inghiottite dall’alta marea e che diventavano quindi praticamente inespugnabili.

Cesare tentò dapprima di cingere anche queste città con le macchine d’assedio, poi si affidò alle sorti della battaglia navale condotta dal suo luogotenente Decimo Bruto. Si vide allora, davanti all’esercito romano schierato in un vastissimo anfiteatro collinoso, come per godersi uno straordinario spettacolo di gladiatori, lo scontro tra le piccole navi di Bruto e i giganteschi velieri veneti, guidati da equipaggi superbamente addestrati che evitavano con eleganza e abilità gli attacchi delle navi romane, per poi scaricare su di esse pietre e pece bollente.

I generali e i soldati accampati sulle colline stavano già temendo il peggio quando, improvvisamente, si udì uno scroscio di applausi: i marinai della nave di Decimo Bruto si erano avvicinati infatti ad un galeone brandendo enormi forbici che Bruto aveva fatto preparare segretamente, con le quali cominciarono a tagliare le vele che, cadendo, seppellirono i soldati veneti sotto la massa di cuoio. Grazie a questa formidabile opera di “potatura”, attuata ben presto da tutti gli equipaggi romani, i galeoni si trovarono in balia degli avversari.

LE IMPRESE DI CESARE IN GALLIA

Cesare è ben noto per una serie di azioni da lui raccontate nel De Bello Gallico.

Per incutere ai Germani un terrore definitivo circa le capacità strategiche romane, il proconsole fece costruire in dieci giorni un ponte di legno di una resistenza eccezionale, forse presso l’odierna Andernach, per poi devastare i territori degli Ubii e dei Sicambri. A detta di Cesare, gli Svevi, alla notizia del suo arrivo attraverso il ponte, si rifugiarono nel profondo delle foreste. Diciotto giorni dopo, Cesare ripassò il fiume e tagliò il ponte dietro di sé.

Nel 55 a.C. Cesare compì un’altra impresa memorabile, varcando la Manica con due legioni imbarcate su 80 navi da trasporto, scortate da 50 triremi. Partito in piena notte, egli arrivò alle otto e mezzo del mattino davanti alle bianche scogliere di Dover. Superata l’accanita resistenza da parte dei Britanni, sconfitti presso Walmer, fu però costretto a fare ritorno in Gallia per l’avvicinarsi di un rigido inverno. La Britannia, in realtà, resterà un chiodo fisso nella mente di Cesare, il quale sapeva bene che in quell’isola si nascondevano i misteri della religione celtica, quei druidi che, a cominciare dal suo vecchio amico Diviziaco, potevano semplificargli la vita in un territorio imbevuto di antiche credenze, di riti e miti ignoti ai Romani.

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Ambedue queste imprese colpirono le fantasie a Roma ed accrebbero immensamente la sua popolarità: il Senato, per bocca di Cicerone, fece decretare quindici giorni di ringraziamento agli dèi, cerimonia mai avvenuta per nessun generale romano.

L’anno successivo, però, Cesare seguì il suo istinto e tornò in BritanniaLo avevano colpito lo strano modo di fare la guerra della gente britanna, con grossi carri d’assalto, ed alcuni grandiosi monumenti, che, per la loro enormità, non sembravano neppure concepiti a misura d’uomo.

Deciso a sciogliere almeno in parte questi interrogativi, Cesare sconfisse il potente re Cassivellauno, terrorizzando gli abitanti della regione del Tamigi facendo precedere da un elefante i legionari in marcia. In poche settimane, quando Cassivellauno accondiscese a dichiararsi tributario dei Romani, Cesare tornò in Gallia.

L’INSURREZIONE DELLA GALLIA

Cesare fece assai bene a tornare, perché sotto la quiete della Gallia covavano in realtà le ceneri una terribile insurrezione. I Belgi si sollevarono ancora una volta, sotto la guida di due capi abili e spietati, Ambiorige e Induziomaro. Il primo, con una serie di veloci marce di avvicinamento, raggiunse il campo della legione comandata da due legati di Cesare, Sabino e Cotta, isolata dal resto delle truppe: lo scopo era annunciare ai Romani che tutta la Gallia si sarebbe sollevata contro di loro, promettendo la vita salva ai legionari se essi avessero il luogo.

Nel quartier generale di Sabino e Cotta si svolse a quel punto un drammatico dibattito. Le parole di Ambiorige erano da ritenersi veritiere? Titurio Sabino disse di sì, che la posizione del campo era sfavorevole e che in ogni caso non avrebbero potuto resistere a un lungo assedio. Cotta protestò, affermando come non ci fosse niente di più vergognoso per un soldato che seguire il consiglio del nemico in una circostanza così grave. Alla discussione finirono col partecipare i legionari e, in piena notte, Cotta si arrese al parere di Sabino, mentre i legionari facevano i bagagli.

Fu un massacro. In una stretta gola, Ambiorige li attaccò e, dopo uno strenuo combattimento, li sterminò quasi tutti.

Alla notizia di quel massacro, Cesare si precipitò al suo quartier generale, inviando messi ai vari generali romani sparsi nella Gallia, in primo luogo al suo luogotenente Tito Labieno. Cesare giurò a se stesso che avrebbe avuto vendetta, arrivando persino a lasciarsi crescere incolti e selvaggi i capelli e la barba fino all’ottenimento della stessa.

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Per domare la ribellione dei Belgi, Cesare impiegò quasi due anni: egli dovette raccogliere a una a una le sue legioni accampate in parti diverse della Gallia e, appena poté disporre di un’armata consistente, sferrò una serie di attacchi che presto si trasformarono in atroci rappresaglie. Induziomaro venne ucciso, i Belgi e le contrade nordoccidentali della Gallia che avevano seguito il loro esempio furono pacificate col ferro e col fuoco. Per far sentire il peso della sua potenza, il proconsole ripassò il Reno.

Questa fase della campagna ebbe termine soltanto quando Cesare riuscì a raggiungere e devastare il territorio degli Eburoni, il cui capo era proprio Ambiorige, che aveva massacrato la legione di Sabino e Cotta. Egli poté così abbandonare il lutto, ma non ebbe la soddisfazione di catturare Ambiorige, che sfuggì per un pelo al comandante della cavalleria romana, Basilo.

VERCINGETORIGE

Cesare sapeva che nonostante queste repressioni la situazione non era affatto tranquilla e, tornato in Italia, fece una leva in massa nella Gallia Cisalpina. Le peggiori previsioni di Cesare trovarono una rapida conferma. Si era ormai nell’anno 52 a.C. e i Galli decisero di fare uno sforzo supremo per scrollarsi di dosso l’egemonia romana.

Questa volta ebbero anche un capo che, per breve tempo, parve simboleggiare la loro unità di nazione. Si chiamava Vercingetorige ed era figlio di Celtillo, descritto da Cesare come “l’uomo più autorevole di tutta la Gallia”.

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Il 13 febbraio del 52 a.C. i rappresentanti di tutte le popolazioni più importanti della Gallia Centrale si riunirono nella foresta dei Carnuti e, durante una solenne cerimonia religiosa presieduta dai Druidi, diedero il segnale dell’insurrezione generale. I Carnuti misero immediatamente a morte i mercanti e i cittadini romani nella città di Cenabo (l’odierna Orléans), ed al loro gesto fece subito eco Vercingetorige che prese il potere tra gli Arverni, stanziati nella regione del Massiccio Centrale, e sollevò il popolo confinante dei Biturigi, mettendosi a capo dell’insurrezione.

Vercingetorige era un comandante giovane e geniale, dal temperamento fervido, buon conoscitore della strategia militare ed eccellente guerriero, ma non possedeva la costanza inflessibile degli avversari ed era talvolta ipnotizzato da una specie di misticismo che lo induceva a imprudenze gravi.

Quando Cesare seppe del massacro di Cenabo, egli raccolse la cavalleria ed il supplemento di truppe arruolate e immediatamente si avviò per le Alpi. Fu una marcia lunga, pericolosa e disagevole, compiuta in pieno inverno: Vercingetorige, che non si aspettava una manovra così audace, fu costretto a tornare precipitosamente indietro e prendere in mano la difesa del suo popolo.

Cesare sembrava fulmineo. Raggiunte le due legioni accampate nel territorio dei Lingoni, entrò alla loro testa nella città di Agendicum (Sens) e poi qonquistò rapidamente le cittadelle di Vellaunodunum, di Cenabo e di Noviodunum, deciso a dirigersi verso Avaricum (Bourges), la città sacra dei Galli.

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A questo punto Vercingetorige optò per la tattica della terra bruciata: anche Avaricum, a dispetto del suo religioso splendore, sarebbe dovuta essere distrutta prima che i Romani potessero impadronirsi dei suoi grandiosi depositi di grano. Di fronte però alle preghiere disperate dei Galli ed alle memorie venerate che evocavano, Vercingetorige non ebbe il coraggio di ordinarne l’abbandono e la distruzione, permettendo così a Cesare di cingerla d’assedio e, dopo una resistenza accanita, farla capitolare.

Vercingetorige, ormai isolato, cercò rifugio in Arvernia, ma Cesare era deciso ad inseguirlo e catturarlo, affiancato dal luogotenente Labieno. Cesare tentò di assaltare Vercingetorige nelle sue montagne, presso Clérmont-Ferrand, in Gergovia, ma l’inesperienza dei suoi comandanti rischiò di mandare in fumo il suo piano: i Galli respinsero infatti l’assalto, disunendo i soldati che furono costretti a ripiegare in pianura.

Cesare, a quel punto, prese in mano le redini della situazione, assediando Vercingetorige con tutte le proprie unità ad Alesia, dove il capo dei Galli si era rifugiato. Vercingetorige, probabilmente, commise un errore: a differenza di Gergovia, Alesia non presentava infatti difese naturali. Cesare costruì rapidamente intorno all’oppidum dei Galli una gigantesca circonvallazione di 15 chilometri e, venuto a conoscenza del fatto che Vercingetorige avesse chiamato in soccorso tutti i Galli, arrivando a formare un colossale esercito di 240.000 uomini, Cesare diede l’ordine di cingere il campo trincerato di una seconda circonvallazione che lo potesse difendere verso l’esterno.

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LA BATTAGLIA DI ALESIA

L’interminabile guerra gallica si sarebbe quindi conclusa con una battaglia campale.

I Galli attaccarono da ambedue le parti. Le truppe alleate di Vercingetorige cercavano di rompere il campo romano per costringere Cesare a togliere l’assedio di Alesia, ma vennero respinte da Trebonio e Marco Antonio con enormi perdite. Cesare ricacciò due attacchi di Vercingetorige, ugualmente destinati a creare un collegamento con le forze che si trovavano oltre la circonvallazione. Finalmente, alla testa di 50 coorti e fiancheggiato da Labieno, il proconsole affrontò il grosso delle truppe provenienti dalla cittadella e le mise in fuga, mentre i suoi generali facevano a pezzi sulle colline al di là del campo trincerato i resti dell’esercito gallo inviato in soccorso.

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A Vercingetorige non restò che mandare a Cesare una deputazione per trattare la resa. Il proconsole mise una sola condizione, ossia che gli fossero consegnati i capi e le armi. Allora Vercingetorige riunì i suoi guerrieri per l’ultima volta, indossò la sua armatura più bella, sali a cavallo e galoppò verso Cesare. Giunto davanti al generale romano, che indossava la porpora, scese e s’inginocchiò per rendergli omaggio e domandargli il perdono. Inflessibile, Cesare ordinò che venisse gettato in ceppi.

Poi, separò dall’immobile massa degli sconfitti gli Edui e gli Arverni e li rispedì nelle loro contrade, con l’intento di servirsene come ausiliari nella guerra civile ormai imminente: tutti gli altri furono distribuiti ai legionari, per essere venduti come schiavi.

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